"E sentiamo Massinelli,
il mio re degli asinelli,
dove sono i Dardanelli?
Professore, io non lo so, lo dica lei."
La prima volta che ho sentito nominare i Dardanelli è stata da piccolo ascoltando mio padre che canticchiava questa canzone della sua infanzia (
www.youtube.com/watch?v=8lOMVVG3Yps).
Dato che nella strofa precedente il professore interroga la signorina
Maccabei chiedendole dove sono i Pirenei, per anni ho creduto che i
Dardanelli fossero anch'essi una catena montuosa. Credo che la verità mi
si sia rivelata non molto tempo fa. La scoperta che si tratta del
medesimo pezzetto di orbe terraqueo che a scuola veniva indicato con il
nome di Ellesponto è poi cosa per me cosa veramente recente. Per i Turchi è, semplicemente Canakkale Bogazi, lo stretto di Canakkale, il primo porto che si incontra sulla sponda anatolica entrando dal Mar Egeo. Di fronte, 20 miglia più avanti, Gelibolou,
la Gallipoli della terribile sconfitta del 1915 subita dalla Triplice,
costata 250.000 morti sul versante anglo-francese e 150.000 su quello
turco e che è passata alla storia col nome di Campagna dei Dardanelli.
Nel goffo tentativo di forzare il blocco navale e penetrare in campo
nemico, gli alleati incapparono in uno sbarramento insuperabile e vennero ricacciati indietro dall'esercito Ottomano guidato dal giovane colonnello Mustafà Kemal, poi passato alla storia come Ataturk, il fondatore della Turchia moderna. A Piazza Taksim, in questi giorni, i dimostranti inneggiano a lui, senza di lui la Turchia sarebbe oggi tutt'altra cosa, ben peggiore.
E' proprio Canakkale la mia meta, ma le mie intenzioni sono assolutamente pacifiche, la mia Campagna dei Dardanelli sarà tutta tesa a superare due soli ostacoli (non voglio dire nemici, fanno in fondo semplicemente il loro mestiere): il vento e la corrente. Entrambi forti, entrambi contrari per chi entra. Molta cautela quindi, potrebbe non essere una passeggiata, ma come al solito la mia filosofia è: dato che non me l'ha ordinato il dottore, se non ci si riesce, giro la prua e riprovo il giorno dopo o quando le condizioni meteo lo consentiranno.
La mattina mi sveglio alle 6 e mezzo, apro il tambuccio, bonaccia totale, si prevede smotorata, almeno all'inizio. Invece nel breve tempo di un caffè si alza una leggera brezza, tanto che quando salpo l'ancora e mi metto al timone l'anemometro segna 60 nodi. 60 nodi??? Proprio ieri ho notato che in testa d'albero le alette del Windex si sono piegate e la freccetta incastrata fra di esse, se ora mi molla pure la stazione del vento... Poi però mi dico: ma tutte 'ste diavolerie, sulla cui utilità non si discute, sono proprio indispensabili? Quando avevo il Laser, una piccola barchetta lunga poco più di un surf, la mia stazione del vento si riduceva ad un pezzetto di nastro magnetico saccheggiato da una vecchia videocassetta e in tanti anni non s'è mai rotta. Su Piazza Grande ho i guidoni alle crocette che possono svolgere la stessa funzione in modo egregio, saranno loro il mio Windex durante la navigazione di oggi. E quello che non faranno i guidoni, lo faranno le mie orecchie. Avete mai provato a sentire il vento con le orecchie? Muovete la testa lentamente, quando siete perfettamente nel suo letto, il vento fa un rumore diverso, quella è quindi la direzione da cui proviene.
Alzo le vele e mi metto in rotta, non sono 60 nodi, ma 20 abbondanti sì, lo dico con certezza perché miracolosamente l'anemometro torna a funzionare. Navigo di bolina stretta, c'è mare, sono costretto a poggiare qualche grado altrimenti lo scarroccio vanificherebbe ogni mio tentativo di avanzare. Saggiamente ieri ho girato sul lato nord di Lemos, proprio per avere possibilità di poggiare nel caso l'andatura al vento fosse risultata oggi troppo stretta. Se avessi girato sul lato sud, più breve, oggi mi troverei costretto a bordeggiare, faticando non poco visto che c'è almeno un metro d'onda. Man mano che mi avvicino il mare cambia colore,
dal blu intenso dell'Egeo greco, al grigio verde che mi ricorda tanto le tristi acque di casa, Fiumara Grande, la foce del Tevere. Decollando dall'aeroporto di Fiumicino e guardando in basso, si nota una specie di enorme fungo marroncino, sono i detriti ed il fango trasportati dal fiume e sputati in mare, unitamente ad una cospicua dose di inquinanti di ogni genere. I Dardanelli non sono un fiume, ma sputano anche loro acque sporche, inquinate, provenienti dagli scarichi delle tante industrie e metropoli che affollano le sponde del Bosforo e del Mar Nero. Solo Istanbul conta 16 milioni di abitanti, poi ci sono Odessa, Sebastopoli, decine e decine di milioni persone che tutte le mattine si alzano e fanno i loro bisognini che nella maggior parte dei casi arrivano in mare senza subire alcun processo di depurazione. L'idea di galleggiare sulla diuresi turco-exsovietica non mi esalta per niente, cerco di non pensarci e mantenere la rotta.
Il vento aumenta, sfiora i 30 nodi e gira leggermente verso nord, in modo quindi favorevole, posso orzare qualche grado. Purtroppo così mi trovo il mare esattamente sulla prua, sono onde corte e ripide, veramente antipatiche. Piazza Grande su alcune sbatte, su altre infila la prua, che viene leggermente sommersa per poi riemergere sollevando acqua e schiuma che spazzano la coperta. Benedetto sprayhood, non prendo una goccia, resto completamente asciutto! Mi accorgo che la manica a vento, o dorade come la chiama qualcuno, della cabina di prua non è stata girata, c'è il rischio che qualche secchiata d'acqua mi finisca sul materasso. Controvoglia metto la cintura di sicurezza e vado a prua per orientarla verso poppa. Nonostante il vento sia girato, continuo a scadere in latitudine, evidentemente lo scarroccio è notevole con questo mare, oppure gli effetti della corrente dei Dardanelli comincia a farsi sentire, secondo il portolano si avvertono anche a 15 miglia di distanza.
Tengo continuamente d'occhio l'AIS, lo strumento che mi indica sul monitor tutto il traffico marittimo intorno a me. La carta elettronica è cosparsa di triangolini colorati, tutti sulla direttrice dello stretto, chi in un senso chi nell'altro, come insetti in processione. Per il momento preferisco tenermi leggermente discosto, qualche miglio a nord, in modo da lasciare acqua sottovento fra me e le tante navi, spesso non individuabili a occhio nudo. La mia posizione sulla carta è rappresentata con una piccola barchetta rossa; davanti, una freccetta indica il punto dove mi troverò fra 20 minuti. Data l'incostanza della velocità, la freccetta si allunga e si accorcia continuamente, sembra una linguetta, piccolo pungiglione. Ecco, mi piace immaginarmi così, una piccola ape operosa che avanza in mezzo a nuvole di insetti molto più grandi di lei, lenta e costante, imperturbabile ma pronta a tutto. In un momento in cui il mare allenta un pochino la presa, mi faccio un caffè. Mentre lo sorseggio penso che sto bevendo un caffè italiano, su una barca tedesca, navigando in acque greche, con la prua rivolta verso la Turchia mentre lo stereo mi manda a tutto volume Across the universe degli inglesi Beatles: mi sento cosmopolita quando ammaino le vele ormai inutili ed accendo il Volvo Penta, riponendo nei suoi 29 cavalli il destino mio e della mia Campagna dei Dardanelli.
A poche miglia dal canale, accosto deciso a dritta. La circolazione
nei due sensi è regolata come sulle strade, bisogna tenere la dritta,
la destra, se continuassi per questa rotta farei la fine di quelli che
imboccano l'autostrada contromano. La mia velocità nel frattempo è
calata parecchio, col motore a 2200 giri faccio 4 nodi scarsi, ne dovrei fare 7 se non ci fosse la corrente; non è calata invece quella delle navi che percorrono la mia stessa "corsia", sono tutte tra i 10 ed i 15 nodi, il che vuol dire che sarò come un'ape sì, ma Piaggio, su un autostrada percorsa da autoarticolati. Ho un leggero brivido lungo la schiena, mentre mi preparo a subire sorpassi a colpi di clackson. Osservo le navi intorno a me, sono tante, sono enormi, lunghe più di 200 metri, impressionanti. Quelle in ingresso sono tutte molto alte al galleggiamento,
il contrario di quelle in uscita, segno evidente che entrano vuote ed
escono piene, segno evidente che l'occidente compra più di quello che
vende, segno evidente che l'occidente continuando così...
Ammaino la bandiera greca ed alzo quella turca e quella gialla, la lettera Q dell'alfabeto delle comunicazioni
marittime. Indica che non ho persone malate a bordo e chiedo libera
pratica. Spero non costituisca impedimento il forte mal di pancia che ho
da un paio di giorni, eredità, credo, dell'unico ristorante che mi sono
concesso, dove ho ordinato agnello e mi sono ritrovato nel piatto una
specie di lesso, un pezzo di carne ricco di tessuto connettivo. Chissà
se è lui il colpevole dei miei crampi.
Scorgo a sinistra l'imponente monumento di guerra turco, una brutta ed enorme colata di cemento che celebra la vittoria di Ataturk, sono proprio sull'uscio! Cerco di mantenere una rotta più costante possibile, in modo che le navi che mi superano non abbiano esitazioni se farlo a dritta a sinistra. Noto che accostano tutte con discreto anticipo, evitando di farmi pelo e contropelo, forse me la passerò meglio dell'Ape in autostrada. Più avanzo, più la corrente aumenta, è impressionante, faccio meno di due nodi pur sentendo il motore cantare alegramente. Provo a spostarmi più vicino la costa, il portolano dice che lì la corrente si avverte di meno. Se non altro in questo modo la prendo un po' di taglio, la velocità aumenta leggermente. Continuo ad osservare l'AIS, ogni tanto noto qualche freccetta che punta esattamente su di me e questo un pochino mi inquieta, soprattutto perchè io sono poco manovriero per via della corrente, le navi che mi puntano per via della loro enorme mole.
Ad un certo punto vedo sulla mia poppa un profilo sormontato da un enorme castello, o torretta, non so qual è il termine più appropriato. Sembra una portaerei, proprio dietro di me, proprio sulla mia scia, ad una velocità che lascia presagire un impatto nel giro di pochi minuti. Proseguo imperterrito, dando spazio a tutto il sangue freddo di cui sono capace. A poche centinaia di metri da me, il mostro accosta qualche grado, non è una portaerei, ma un cargo gigantesco, mi passa vicino, intravedo le sagome delle persone sul ponte di comando, dietro i vetri scuri. Torm Ismini si chiama, 228 metri, 13,4 nodi di velocità. Non è il solo grattacielo galleggiante che mi passa accanto, lo faranno parecchie navi, tutte con ampi margini di sicurezza devo dire. Ma quando le vedi da lontano che ti puntano, quando l'AIS ti avverte che fra poco sarai investito da un ammasso ferroso di dimensioni inimmaginabili, puoi solo metterti buono e sperare che la bestia abbia già pranzato, che sia sazia e che per questo le sue avide fauci ti grazieranno: oggi, almeno.
La corrente nel primo tratto la stimo sui 4 nodi almeno, poi cala leggermente quando lo stretto si allarga un pochino. In questo punto noto però che, malgrado la mia prua sia bene sulla rotta che intendo fare, il GPS mi da un percorso fuori asse di almeno 40 gradi, una numero enorme, evidentemente la corrente mi colpisce di fianco in modo molto più violento di quello che penso. Mi domando come fosse possibile avanzare in questo mare prima dell'invenzione della propulsione meccanica, fra corrente e vento, che è di nuovo sui 30 nodi, nessuna imbarcazione a vela può illudersi di mettere la sua prua verso est in queste acque. Non mi risulta nemmeno ci siano cicli di corrente entrante ed uscente, come nello Stretto di Messina, dove conoscendo gli orari si può sfruttare il movimento della acque a proprio favore. Remigio Zena, un genovese che nel 1875 ha pecorso a bordo di Dafne, un veliero di 12 metri, la mia stessa rotta, racconta che dopo un tentativo di ingresso nel canale, sono stati costretti a mettersi alla fonda ed attendere un rimorchiatore, loro ed un'altra quarantina di imbarcazioni di tutte le dimensioni. Ma un rimorchiatore è un qualcosa di motorizzato, prima ancora come si faceva a fare rotta per Istanbul, per la Crimea, per le tante città del Mar Nero?
Quando il canale si restringe, la mia velocità cala nuovamente.
Canakkale è lì d avanti a me, la vedo perfettamente, ma a 2 nodi, 3 al
massimo, ci vuole ancora tempo. Un windsurf, sfruttando il forte vento,
mi sfreccia davanti alla prua, lo prendo come un buon segnale,
un'immagine di svago che mi distoglie per un attimo dall'atmosfera
mercantile che mi circonda da qualche ora. Poi, però, un sommergibile mi riporta a tutt'altra realta. Fra poco dovrò fare i conti
anche col traffico perpendicolare al canale, quello dei traghetti che
uniscono continuamente le due sponde della città, ma per questo genere
di cose mi sono ben temprato attraversando più di una volta lo Stretto
di Messina, questi a confronto sono vaporetti!
Sono quasi le sette di sera quando entro nel piccolo marina della città, raccolgo la trappa col mezzo marinaio, lancio le mie cime in banchina e finalmente eccomi in Turchia. Si fa per dire, perchè finchè non espleto le formalità di ingresso, non posso uscire dalla recinzione del porto, ben recintato e segnato come confine di stato. Ormai è tardi, gli uffici sono chiusi, se ne parla domattina, resto consegnato come al militare, con i turchi non si scherza, sono molto suscettibili sulle loro leggi. Canakkale, d'altra parte, non pare essere un posto da urlo, farò con calma un giro domani, quando mi lascieranno uscire di cella. Allah u achbar, urla il muezzin dall'alto di un minareto, ma la voce gracchia, è una registrazione, non ci sono più i muezzin di una volta, proprio come i marinai veri, quelli che facevano i Dardanelli senza l'ausilio di tecnologie moderne.